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Il discorso del re

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Un film di Tom Hopper, ha ricevuto 12 nomination all’Oscar. Non so confermare o meno la plausibilità di tutte quelle candidature: alcuni personaggi mi sembrano poco caratterizzati, a tratti il racconto è lento e approssimativo, si incontrano vere e proprie cadute di ritmo. Di certo il film ha un grande merito: dirotta con maestria lo spettatore da quel contesto storico pregno di tragicità e così coinvolgente, qual era l’approssimarsi della seconda guerra mondiale, ad un ambito preciso altrettanto tragico ma totalmente altro, nascosto tra le pieghe di una menomazione che da sempre desta una profonda tenerezza: la balbuzie.

Il racconto, nella svolgersi di una trama tessuta dai due protagonisti, Colin Firth e Geoffrey Rush, si snoda intorno un incontro e all’instaurarsi di un rapporto umano. Umano perché reale, umano perché dialogico e relazionale: se è vero che un rapporto nasce sempre da un incontro, è anche vero che ‘incontro’ ingloba la parola ‘contro’: ogni confronto ha, e deve avere, i suoi momenti di scontro per crescere e raggiungere una sua solidità. E’ quello che succede nel film che pare scandire le tappe di un percorso: lungo il sentiero della conoscibilità reciproca, i due protagonisti partono da molto lontano – la deferenza di uno, dovuta al titolo dell’altro – per arrivare all’unica intimità possibile: quella che trova e riconosce un humus comune nella propria umanità.L’incontro è tra re Giorgio VI il balbuziente e il suo logopedista, falso dottore ma esperto psicanalista, laureatosi all’università del dolore, quello che ha attraversato la sua terra con la Grande guerra; lui sa dove e quali corde toccare per spingere fino al suo fondo un’anima, e poi farla risalire, ma consapevole, dall’abisso in cui era rimasta impigliata.

L’incontro è tra l’alterigia della nobiltà, quella blasonata, e la ‘nobiltà altra’, quella che si proietta sull’altro e gli tende una mano, d’origine squisitamente interiore, rigorosamente umile e disinteressata, all’occorrenza impertinente (se impertinenza serve, com’è nel film, ad accorciare distanze…); di fondo illetterata, è decisamente erudita nei rapporti umani: li ha vissuti sulla propria pelle, ed ora è capace di proiettarsi verso un orizzonte lontano, lontano da mondanità, apparenze, pregiudizi, opportunismi, lì dove si trova l’essenza dell’uomo.

L’incontro è tra la ricchezza e la povertà, frizione ineludibile da cui sgorga sempre un insegnamento, oggi più che mai inutile moralismo per i furbi di ogni tempo e stagione. L’uomo, per costoro, non solo ha una sua valutazione economica, ma può ben essere ricondotto, nella sua essenza, esclusivamente ad essa. Riduzione letale, questa, che non svilisce ma cancella l’uomo dalla vita di ogni tempo: non esistono i principi da una parte, e l’uomo dall’altra, ma l’uomo ‘è’ i suoi principi, è i valori in cui crede, tutta roba che, vivaddio, non ha prezzo. Dall’intelligenza e la dignità del logopedista che non  sa identificarsi in una somma di danaro né vendere o svendere i principi in cui crede,  inizia la fortuna del Re.

Un insegnamento, di oggi e di sempre, la cui sintesi amara affido alla mano esperta del drammaturgo norvegese Henrik Ibsen “Il denaro può comperare la buccia di molte cose. Può darvi il cibo ma non l’appetito, la medicina ma non la salute, i conoscenti ma non gli amici, i servitori ma non la fedeltà, giorni di gioia ma non la felicità e la pace”.

Il discorso del re, di fondo, è un film su un preciso incontro, uno di quelli fortunati, capaci non tanto di farti cambiare vita, ma di fartela incontrare – e riconoscere – tra i fotogrammi di una pellicola.
 
 
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